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Demenza senile: standardizzare la diagnosi

La proposta è stata lanciata dal noto comportamentalista belga Joel Dehasse, in occasione del quarto meeting internazionale di Medicina Veterinaria Comportamentale (IVBM, International Veterinary Behavior Meeting), tenutosi dal 18 al 20 agosto 2003 a Caloundra (Australia). Perché non accorpare le diverse terminologie diagnostiche oggi usate per descrivere la demenza senile del cane e del gatto sotto la dizione standardizzata di “generalised cognitive impairment disorder”, e cioè “disturbi correlati a deficit cognitivi generalizzati”? Sentiamo il parere di alcuni esperti…
Demenza senile: standardizzare la diagnosi

Disfunzione cognitiva, depressione da involuzione, sindrome confusionale. Sembrano tutte diagnosi diverse. In realtà, i comportamentalisti animali si riferiscono fondamentalmente ad un’unica entità diagnostica: la demenza senile, nelle sue multiformi sfaccettature cliniche e semiologiche.“Perché, allora, non usare una classificazione descrittiva generale dei deficit cognitivi come diagnosi standard, in modo da aiutare gli esperti a parlare dello stesso disturbo con la stessa denominazione?” Chi scrive è Joel Dehasse, che lancia questa proposta a tutti i comportamentalisti. Non solo, ma nel poster presentato a Caloundra traccia i criteri diagnostici di questi “disturbi correlati a deficit cognitivi generalizzati”: In sostanza, si tratta di una dettagliata lista di segni obiettivi principali – che vanno dal disorientamento spazio-temporale ai deficit di memoria al deterioramento delle capacità di apprendimento e di interazione sociale – accompagnati da sintomi definiti “complementari”, tra cui confusione, movimenti stereotipati, riproduzione di comportamenti infantili, attacchi di panico, etc. Dehasse specifica anche diversi tipi di questi disturbi, parlando, ad esempio, di quelli ad esordio improvviso o lento, di quelli caratterizzati da depressione o iperattività o di quelli secondari a cause traumatiche, neurologiche, endocrine. “Penso che la proposta di Dehasse sia indubbiamente molto utile per farci ricordare che, anche se i segni clinici possono essere molto diversi da soggetto a soggetto, il processo patologico sottostante è sempre lo stesso: l’invecchiamento del cervello.” Il parere favorevole è del comportamentalista canadese Gary Landsberg, che, in questo, trova conforto anche nelle parole di un altro opinion leader nel settore del comportamento animale, Maria Cristina Osella: “L’idea è sicuramente molto buona. Forse, ci vorrà del tempo per far accettare questa unificazione terminologica e, forse, ci potrà essere qualche difficoltà per standardizzare anche la metodologia di definizione dei segni principali e dei sintomi complementari.” È, comunque, fuor di dubbio che il “sasso” lanciato da Dehasse è importante. Sicuramente, è il tentativo di convogliare gli sforzi di tutti gli specialisti verso una sempre più profonda comprensione dei complessi meccanismi del comportamento animale e dei disturbi ad esso correlati, evitando fuorvianti diatribe di natura squisitamente terminologica.